Tra Synth Pop e nuvole di lacca nella terra del Sol Levante.

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    ~Se son rose appassiranno

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    E' fresca di uscita una recentissima collection fotografica delle immagini più aberranti immortalate nei vagoni della metropolitana di Tokyo, in Giappone. La gente è ammassata come sardine in lunghi tubi di latta mossi da ruote di metallo, che sfrecciano nei tunnel alle velocità supersoniche battezzate dagli esotici mega-robot del Sol Levante qualche decade fa; mito capace di influenzare profondamente la cultura occidentale, tanto da divenire un vero e proprio marchio di fabbrica della terra nipponica: dai mecha a Super Mario. Ne subirono il fascino i Sigue Sigue Sputnik, istrionico progetto musicale inglese nato sotto l'egida di Atari, che non fu altro se non una meteora dell'ormai tarda scena punk, scimmiottatori del Do It Yourself marcato DEVO, con tanto di strumenti e stravaganti costumi costruiti, appunto, in solitaria.
    Con Flaunt It i Sigue Sigue Sputnik spiattellavano in copertina un elefantiaco mecha circondato da fumetti e azione dinamica, con il titolo stampato in colori pastello accesi in pieno stile anni Ottanta. Fu un flop per molti, un ilare tentativo per i più generosi. Si guardi oltre, si focalizzi l'attenzione sulla sfera umana e non sulle luci, sulla tecnologia, sui megaschermi che danno il benvenuto a Bob Harris in città nelle magiche atmosfere di Lost in Translation dipinte da Sofia Coppola e dalla sua macchina da presa. Forse proprio ella, con grazia effimera da eterna giovinetta, ha saputo al meglio conferire un'anima al caos giapponese che si affacciava al Nuovo Millennio nel duemilaquattro. Le vicende di Bob e Charlotte hanno commosso in molti nelle sale dodici anni fa con le loro storie separate di due individui persi nella traduzione, alla ricerca di se stessi tra i flash stroboscopici, le serate karaoke e le usanze insolite di una terra lontana.
    Un paese che differisce per lingua, cultura, usanze e costumi; chiuso a lungo alle influenze globali e costretto ad aprirsi effettivamente solo dopo il fatidico finale del secondo grande conflitto mondiale. Il Giappone è un luogo affascinante, capace di mantenere il suo carisma magnetico ancora oggi, che da globalizzato è riuscito a globalizzare -grazie alla fantasia delle sue brillanti intelligenze- l'Occidente. L'uomo vive tale condizione in una stasi eterna tra equilibrio e crollo, a metà tra il sentirsi motore del Pianeta grazie allo spaziare libero e vibrante dell'intelletto ed il profondo tedio dell'essere marchingegno in un arzigogolato intreccio di ingranaggi ben oliati. E' il criceto che corre sulla ruota rinchiuso in una gabbia mentre immagina di scorrazzare libero fra le verdi praterie irrorate dal candore solare.
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    Conciliare l'ambivalenza di tale visione con la realtà musicale è l'arduo onere dell'artista, il quale nasce nel momento in cui l'animo umano è spinto verso l'elevazione di sè, rifiutando una mera esistenza pragmatica e terrena. Così, tra le nuvole di lacca e i pesanti trucchi della New Romantic anni Ottanta, nasce all'interno del movimento ispirato dal duo Bowie-Eno e portato avanti da Steve Strange e Brian Ferry una cultura nuova, fortemente nipponica, generatasi dall'incontro tra i gentlemen inglesi e gli orientali dagli occhi a mandorla. E' il caso dell'audace progetto Arcadia, che concilia il non plus ultra dei Duran Duran alle stanze esotiche di Masami Tsuchiya; o ancora del binomio Sylvian - Sakamoto, con le partecipazioni a intermittenza di Akiko Yano e dell'onnipresente Tsuchiya. Realtà ben lontane da Spiders o Osamu Kitajima, che nelle decadi precedenti facevano il verso a Beatles e King Crimson. In tal maniera le luci caotiche delle metropoli giapponesi assumono forme del tutto nuove, diventano porti sicuri, sono ponti verso una realtà completamente differente.
    Alla base di tutto vi è la percezione, l'illusione sensoriale creata da una musica fittizia e patinata, fatta di esperimenti, giochi di suoni e melodie dissonanti, che poco ha a che fare con la spontaneità del cantautorato. La mise assume un'importanza a dir poco sacrale: pantaloni a vita alta e pinces per tutti, camicie a sbuffo con colletti annodabili, rossetti, mascara, lacca a nebulose per modellare ciuffi sparati e stravaganti. I "Cosmopoliti neoromantici" di cui si è già trattato in separata sede sono gli eroi della ribalta, condottieri della musica presso lidi lontani e pionieri dell'8-bit; cosa si celi, poi, sotto tale impalcatura resta un mistero. Ciò che è certo è che questo mondo piaceva, ammorbava i teenagers desiderosi di scoprire una terra nuova che in fondo non era poi così dissimile da quella che abitavano. Vedere eccentrici giapponesi in blazer pastello maneggiare bassi e sintetizzatori non era proprio la più canonica tra le visioni possibili, dunque incuriosiva, spingeva a distaccarsi dalla realtà, a comprendere meglio cosa si celasse dietro le persone secondo una accezione puramente latina del termine. Eppure in tutto questo materialistico cicisbeismo sorge l'indomita esigenza di semplicità, di distaccarsi per un istante dagli sbrilluccichii sfavillanti dell'effimero per ricongiungersi alla realtà.
    Vengono così alla luce i primi gruppi di transizione, che cercano di conciliare la tecnologia scatenata e le atmosfere à la Miami Vice con qualcosa di più fermo e solido. E' il caso dei lavori di Haruomi Hosono, del solistico Yukihiro Takahashi e dell'Enciclopedia Musicale Illustrata -per dirla all'italiana- di Ryuichi Sakamoto; ma anche delle maestose colonne sonore di Merry Christmas Mr. Lawrence e de "L'Ultimo Imperatore". Sembra quasi che la Yellow Magic Orchestra, presa per singoli, sia l'ancora di salvataggio, l'anello di congiunzione tra il glam scatenato e il classicismo in salsa synth pop. E' la corrente madre di quello che sarà David Sylvian con i suoi Secrets of the Beehive e ancora più tardi con l'ambient di There's a light that enters the houses with no other houses in sight; ma anche della collaborazione tra Sakamoto e Alva Noto. Insomma, i pionieri di questa corrente appaiono spudoratamente chiari, i nomi ricorrenti sono alla fin fine sempre gli stessi che girano e rigirano. Là ove Simon le Bon, Nick Rhodes e John Taylor non hanno osato calcare la mano ci hanno pensato i membri dei Japan con le loro carriere solistiche, da Mick Karn ed il suo "sonno della ragione che genera mostri" alle collaborazioni di Jansen e Barbieri con Tsuchiya, Akiko Yano, Takahashi e soci. Fanno da corredo tutti quegli ispirati che vanno da Koharu Kisaragi a Cibo Matto, Guernica, Miharu Koshi, Yapoos, Apogee e Seiko Matsuda: ve n'è per tutti i gusti.
    Quali, però, gli album essenziali? Gli irriducibili?
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    Ne passeranno qui in rassegna tre, lavori dai quali non si può prescindere nell'approccio alla scena J-Pop generale di quegli anni. Si parte da Benzaiten, opera prima di Osamu Kitajima datata 1974. Liriche esigue, contornate da stanze musicale complesse e intricate, addobbate alla perfezione dagli strumenti tradizionali della cultura giapponese: è questa la formula volta a scimmiottare un po' ciò che in Occidente facevano i King Crimson di Fripp & Co. Il progressive di stampo inglese, dei Genesis, si fonde ai costumi del popolo nipponico in un album quasi storico, basti pensare a come le sue tracce siano ancora oggi utilizzate in molti documentari concernenti l'età degli Shogunati e delle prime forme feudali giapponesi. I loro nomi non importano, perdono qualsiasi forma di identità propria di fronte ad un flusso che sembra unico e inarrestabile; Benzaiten è un lavoro tradizionale che viene spesso ripreso dalla scena J-Pop attuale, si guardi ai lavori più recenti della Wagakki Band per comprendere al meglio tale posizione. Da segnalare anche il lavoro più tardo di Kitajima: Masterless Samurai, che ne riprende la linea con più scarso successo a lungo termine, ma sicuramente maggior perizia nell'inserimento del sintetizzatore che fa da squillo di trombe all'avvento degli anni Ottanta.
    Con gli Happy End si torna un po' indietro nel tempo, quanto basta per inquadrare la risposta alle avanguardie occidentali in terra nipponica. La band che lancia la figura di Haruomi Hosono è essenziale nella sua opera Kazemachi Roman, disco che riesce a far perdere totalmente la cognizione dell'epoca in cui si vive. L'attualità che il lavoro, targato '71, trasuda da ogni poro è oltremodo moderna, melodica, spigliata. Potrebbe essere un disco uscito ieri, ma il suo potere reale risiede proprio nell'aver permesso ad ogni disco uscito ieri di venire alla luce. Hosono, Ohtaki, Suzuki e Matsumoto rivoluzionano e stravolgono l'idea del fare una musica forzatamente diversa, inseparabile dai sintatizzatori e dall'elettronica ad ogni costo. Kazemachi Roman è limpido, sereno, pacato; tanto che la sua "Kaze wo Atsumete" diventa colonna sonora di uno dei momenti più romantici in Lost in Translation. A volte ritornano.
    L'idea di base di dipingere lo scenario di una Tokyo pre-Olimpiadi del 1964, scevra dalle idee e concezioni di sfreccianti Shinkansen, dei continui arrivi e partenze in aeroporto, della nuova architettura dettata dal maestro Kenzō Tange, trapela evidente dalle linee naturali e semplicistiche dell'opera. Non v'è spazio per la tradizione canonica di Kitajima, ma solo per la melodia romantica e sublime della semplicità. Il concetto è racchiuso perfettamente nella struggente "Nastsu Nandesu", quasi a ricordarci che alla fine non è che un'altra estate, ma anche che da quella del '64 il Giappone sarà totalmente diverso.
    Si chiude il sipario con What, Me Worry? di Yukihiro Takahashi, forse il lavoro più semplice tra i tre, ma che più del successivo Neuromantic incarna l'atmosfera efebica della New Romantic di cui si è trattato all'inizio. Riprendendo una celebre citazione di Alfred E. Neuman, quella di un individuo che non si preoccupa mai davanti a nulla, ma anzi sminuisce la questione, Takahashi conferisce forma -assieme all'onnipresente Sakamoto- ad un synth pop non eccessivamente marcato, gradevole, alterato si ma neanche troppo. Il tema preponderante è il romanticismo profuso, l'amore non corrisposto, la partenza, l'addio e la riflessione. Si indaga all'interno di sè, alla ricerca di soluzioni e porti sicuri mentre si scava tra memorie, esperienze, dubbi e incertezze. Si chiede, l'artista, se le soluzioni adoperate possano funzionare in "It's gonna work", condanna un amore usa e getta in "Disposable Love", si rassegna all'addio in "Sayonara" e "My Highland home in Thailand". La Yellow Magic Orchestra c'è praticamente tutta, da Sakamoto a Hosono, ma a firmare il lavoro è il solo Takahashi autore dei testi e, dopotutto, la sua dimensione personale è gradevole.
    Eccoli, al dunque, gli irriducibili: gli ascolti dai quali nessuno che si affacci alla scena J-Pop può sottrarsi. Solo così, forse, si può impartire ordine attraverso la musica al marasma caotico di stravaganze e maxischermi luminosi in una terra ancora insolita e lontana che in molti -da David Bowie a Madonna a Michael Jackson- hanno provato a colonizzare.

    © Le immagini e i testi di questo thread sono contenuti creati da Altair~/Tannhauser!. E' vietata la replica senza un'autorizzazione da parte dello stesso.



    A cura di: Altair~ / Tannhauser!
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    Edited by Altair~ - 27/11/2016, 22:02
     
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